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PG 66 - Capua

Autore/i della scheda: Isabella Insolvibile

Prigionieri al lavoro all’interno del campo di concentramento n. 66 di Capua (NA) - Archivio AUSSME, Fototeca 2 Guerra Mondiale Italia 507/645

Dati sul campo

Comune: Capua

Provincia: Napoli (Caserta)

Regione: Campania

Ubicazione: - Capua

Tipologia campo: transito, contumaciale

Numero convenzionale: 66

Numero di posta militare: 3400

Campo per: ufficiali - sottufficiali – truppa

Giuristizione territoriale: Difesa Territoriale Napoli

Scalo ferroviario: Capua

Sistemazione: attendamento, baraccamento

Capacità: 6000

In funzione: da 04/1941 al 08/1943

Comando/gestione del campo: Magg. Masola (-2.1942); Ten. Col. poi Col. Guglielmo Nicoletti (3.1942-15.7.1943); Col. Achille Bonito Oliva (15.7.1943-chiusura)

Cronologia:
Aprile 1941: il campo entra in funzione
Gennaio-febbraio 1942: il campo diventa la principale struttura di transito per i prigionieri provenienti dalla Libia
16 aprile 1942: il caporale R.A. Smith viene ucciso dopo essere scappato dal campo
17-18 agosto 1942: il capitano K.A. Mitchell e il tenente J.H. Reeves vengono uccisi durante la fuga dal campo
12 novembre 1942: il fuciliere Colin Davies è ucciso mentre tenta di scappare dal campo
Gennaio-aprile 1943: si verificano diversi tentativi di fuga, anche di gruppo
18 aprile 1943: il soldato James Smith è ucciso durante la fuga dal campo
Maggio 1943: un settore del campo è ceduto alla Wehrmacht, che vi rinchiude i suoi prigionieri americani
Giugno 1943: il soldato Jacob Gedile rifiuta di lavorare viene ucciso da una sentinella italiana
Luglio-agosto 1943: il campo è disciolto e i prigionieri trasferiti

Presenza dei prigionieri alleati nel campo di Capua

Data Generali Ufficiali Sottufficiali Truppa TOT
1.3.1942   284 213 2235 2732
1.4.1942   30 189 1883 2102
1.5.1942   17 186 1821 2024
1.6.1942   18 55 732 805
1.7.1942   176 51 566 793
1.8.1942   187 369 3864 4420
1.9.1942 1 344 612 6616 7574[1]
30.9.1942 1 324 456 4776 5556[2]
31.10.1942 1 264 338 4711 5314
30.11.1942   140 460 6259 6859[3]
31.12.1942   111 442 5418 5971[4]
31.1.1943   121 326 4569 5016[5]
28.2.1943   122 318 3754 4194[6]
[1] Dei quali, 1 sottufficiale statunitense. [2] Dei quali, 1 sottufficiale statunitense. [3] Dei quali, 2 sottufficiali e 5 soldati statunitensi. [4] Dei quali, 16 ufficiali, 21 sottufficiali e 143 soldati statunitensi. [5] Dei quali, 12 ufficiali, 8 sottufficiali e 36 soldati statunitensi. [6] Dei quali, 17 ufficiali statunitensi.

Storia del campo

Il campo di Capua, utilizzato per gli alleati dall’aprile 1941, è il più grande campo di transito italiano. Dal gennaio-febbraio 1942 è ufficialmente indicato e utilizzato come principale struttura di smistamento per i prigionieri provenienti dalla Libia. Si tratta di uno dei luoghi peggiori della prigionia in Italia, e questo soprattutto perché il sito resta, per tutti il tempo del suo funzionamento, in permanente allestimento, nel senso che baracche e caseggiati in muratura risultano sempre in costruzione, mentre i prigionieri in transito – spesso, lungo settimane e talvolta mesi – vengono regolarmente alloggiati negli attendamenti. La permanenza sotto le tende, esposte alle intemperie e collocate su un terreno non asfaltato che diventa fangoso in caso di pioggia, è difficilissima ed è all’origine di malanni e malattie in molti prigionieri. Nel gennaio 1942, la morbilità nel campo è del 4% e le malattie più frequenti sono la febbre reumatica, l’enterite, le piaghe, la pediculosi e la ftiriasi.

Tuttavia, le criticità di Capua non si riducono a questo: innanzitutto, va considerato che chi arriva nel sito campano proviene dai tremendi campi di transito dei fronti africani. Le condizioni dei prigionieri sono, quindi, tragiche già in partenza, come racconta il sergente maggiore Charles Henry Burgess, camp leader in un periodo in cui arrivano almeno due contingenti di 2.000 prigionieri dal campo libico di Suani Ben Adem:

The […] drafts were in a such deplorable state of starvation, disease and neglect that when they arrived at Capua station at 5 p.m. on evening, the Italian Authorities would not bring them into Camp at Capua but kept them at the station until mid-night so that no-one could see their deplorable condition. They were all in an advanced state of starvation and were almost all suffering from dysentery and desert sores. Many were desperately ill, some of the men had no clothes of any sort of description except a small blanket as a loin cloth and no boots or shoes at all. It was a case of the most ghastly and criminal neglect. The most desperate cases were sent on at once to Caserta hospital and I heard […] that there were more than 100 deaths at Caserta hospital from ine of the said drafts. [TNA, WO 311/320]


La vita nel campo è dura e risente molto del passaggio delle stagioni, che ha un’influenza determinante sulla qualità della cattività in Italia (e non solo). In autunno e in inverno, anche nel meridione, piove e fa freddo; le tende, non impermeabili, non riscaldate e raramente provviste di illuminazione artificiale, si riempiono di fango, e l’umidità danneggia i pochi beni dei prigionieri. Nel campo mancano acqua corrente, legna, sapone, ricambi di vestiario, vitto a sufficienza, pacchi della Croce Rossa e da casa. Sono difficoltà riferite, in questo caso, non solo dai prigionieri, ma anche dai delegati neutrali e, addirittura, da organi detentori, come la direzione di sanità militare di Napoli, che visiterà il campo più volte, riscontrandone l’inadeguatezza. Il sito è, inoltre, sovraffollato, e i prigionieri sono pieni di pidocchi.

I difetti strutturali del campo di Capua permarranno nel tempo e continueranno a essere giustificati, secondo i detentori, dalla natura transitoria del sito. Il dato relativo alla “disciplina” conferma la criticità della situazione: le punizioni sono infatti frequenti perché i prigionieri provocano volontariamente dei danneggiamenti, ad esempio asportando pezzi di legno per accendere il fuoco. E provano a scappare di continuo: il sito campano è infatti al vertice della classifica dei campi dai quali si scappa di più, ed è anche quello dove si verifica il più alto numero di incidenti (e non solo), anche letali, in tali tentativi. Alcune di queste fughe coinvolgono molti prigionieri e hanno caratteristiche quasi spettacolari, come quella che avviene nel gennaio 1943. Il 25 (o il 27) di quel mese, circa 28 prigionieri riescono a scappare attraverso le fogne. Risultano tutti ricatturati il 30 gennaio: quindici vengono ripresi subito, nelle immediate vicinanze del campo; gli altri restano alla macchia per qualche giorno, prima di essere riacciuffati. Secondo la fonte britannica, alcuni dei fuggitivi vengono poi severamente malmenati, e uno è anche pugnalato con una baionetta. I testimoni avrebbero in seguito raccontato che i prigionieri avevano fatto talmente tanto rumore che gli italiani si erano accorti della fuga mentre alcuni di loro si trovavano ancora nella tubatura. A quel punto le guardie avevano iniziato a spararvi all’interno, ferendo tre prigionieri e rischiando di fare una strage. Dopo la guerra, il comandante italiano dichiarerà di non aver assistito ad alcun tipo di violenza, ma di aver allontanato dal campo uno dei responsabili della sorveglianza il cap. Emerigo, punito anche con venti giorni agli arresti, perché non gli «piaceva come trattava i prigionieri [TNA, WO 311/1203].

Poche settimane dopo, tra il febbraio e il marzo del 1943, altri prigionieri provano a scappare dalle fogne. In questo caso, sono 33, e due di loro riescono a restare alla macchia per ben sei giorni. Ricatturati, gli altri vengono messi in isolamento e invitati a scrivere l’ultima lettera a casa perché, viene detto loro, la mattina successiva sarebbero stati fucilati. La cosa non avverrà, ma per una settimana i prigionieri vengono malmenati duramente e uno di loro finisce anche in ospedale a Caserta. Gli evasi sono stati trovati in possesso di mappe, bussole e “competenze” che avrebbero permesso loro, stando ai testimoni, di raggiungere la Svizzera.

Tuttavia, Capua vive i suoi mesi peggiori nell’estate del 1942, quando si ha il massimo afflusso di prigionieri in Italia, che passano, tutti o quasi, per il campo campano. Il periodo coincide con la sospensione, voluta dalle autorità italiane ma non motivata, delle visite degli ispettori neutrali a tutti i siti meridionali. Quando, finalmente, gli ispettori tornano, è ormai novembre. La situazione è, come sempre, critica: i lavori di costruzione del campo vanno avanti; in quel momento sono presenti più di 4.000 prigionieri, tra i quali neri e indiani tutti tenuti sotto le tende. Nel campo non ci sono stufe, per quattro mesi non sono arrivati pacchi della Croce Rossa, e ciò ha avuto conseguenze gravi soprattutto sul vestiario, data la provenienza nordafricana di larga parte dei reclusi, giunti a Capua quasi sprovvisti di tutto, e in generale in divisa estiva. Non solo: la combinazione tra le scarse razioni assegnate dai detentori e la mancanza o la scarsità dei beni contenuti nei pacchi della Croce Rossa costituisce una delle cause principali del malessere dei reclusi. Dan Billany e David Dowie, a proposito della fame provata a Capua e dei meccanismi psicologici che essa innesca, scriveranno in The Cage:

The fact that Red Cross parcels were divided amongst groups of five imposed an artificial grouping on us, and within the «syndicates» of five resentment at this mutual interdependence expressed itself in subdued quarrelling and distrust. We quarrelled quietly but rather bitterly over each other’s manners and mannerisms, and over the division of the food: and our suppressed sense of shame mortified us afterwards. We were hungry all the time at Capua (except in November, when at last we got a parcel per man per week). When we went into the Mess Hut for the soupy meals the Italians gave us, we watched each other’s plates as well as our own. It was not only every man for himself – the syndicates also were exclusive and suspicious of each other: little families of five, hostile to every other family, sitting in jealous circles round their bits of food, and wrangling within themselves. There was joking, but it was often unkindly. If a syndicate found dome way to bribe an Italian (with soap or coffee) to smuggle them an extra loaf, they guarded the secret like musers. There could not be much genuine co-operation in such an atmosphere. When we went to bed and drew the sheet over us, each man felt more secure, because more alone if we walked in couples it was not so much for real talking as for superficial grumbles. Nobody felt responsible for anyone else. That was how we began. […] so long as it lasted – all the time we were at Capua – the Syndicate System remained a barrier to the fullest co-operation, narrowing our sympathies down to our own «family» and often making us unconsciously hostile to «outsiders». [The Cage, pp. 12 e 25-26]


In una situazione del genere, il rapporto tra detentori e detenuti non può che essere teso. Altrettanto lo è quello tra prigionieri di nazionalità e, soprattutto, etnie differenti. A Capua sappiamo che i reclusi di colore, già ampiamente discriminati dagli italiani, sono anche non di rado messi in difficoltà dai commilitoni bianchi, che ad esempio li indicano come responsabili dei furti che avvengono nel perimetro.

L’ultima visita dei delegati dell’ICRC avviene nel marzo 1943, quando il campo ospita anche qualche centinaio di americani, in un settore a parte gestito dai tedeschi. Al momento dell’ispezione, più di 900 dei prigionieri di Capua sono ricoverati all’ospedale di Caserta o a quello di Nocera Inferiore. Parti non secondarie del campo sono ancora in costruzione; passeggiate e docce, per gli ufficiali, sono state sospese per settimane, per riprendere solo, guarda caso, il giorno precedente la visita dell’ICRC. Per quanto riguarda le docce, il problema è sempre lo stesso, comune a quasi tutti i campi italiani – ma particolarmente grave in quelli di transito –, cioè lo scarso approvvigionamento idrico.

Nel maggio 1943 viene definitivamente ceduto ai tedeschi uno dei settori del campo, in cui i prigionieri vivono ancora nelle tende. Di lì a qualche giorno, sono però pronte le baracche. In generale, il campo non sarà mai ultimato, nonostante le tante promesse e le altrettante proteste di detentori, detenuti e osservatori esterni.

Il campo viene evacuato e disciolto nel luglio 1943; i prigionieri ancora in Campania sono perlopiù inviati ai siti di Sforzacosta e di Laterina.

Come si è detto, Capua è il campo più “letale” d’Italia. Secondo Billany, sul suo filo spinato un avviso, scritto in un inglese approssimativo, ricordava ai prigionieri, tra le altre cose, che le guardie dovevano «shoot to kill» ai prigionieri che tentavano la fuga, poiché «No P.O.W. must escape alive» [sic: Billany, The Trap, cap. 41]. Questa politica avrà conseguenze legali nel dopoguerra.

Riguardo ai decessi avvenuti durante le evasioni dal campo, ecco una breve sintesi:

  • il 16 aprile 1942 viene ucciso il caporale neozelandese Robert Alfred Smith, che è scappato dal campo di Capua con due commilitoni ed è stato alla macchia per una settimana. I prigionieri vengono rintracciati in un’area tra il salernitano e l’avellinese (Bracigliano-Volturara Irpina), a un centinaio di chilometri da Capua. Secondo gli italiani, Smith viene invitato a fermarsi ma non ubbidisce ed è quindi ferito mortalmente. Gli altri due prigionieri, uno dei quali riporterà ferite lievi, sostengono invece che gli italiani abbiano sparato a Smith a sangue freddo, mentre questi aveva le mani dietro la nuca. Le autorità italiane escluderanno qualsiasi responsabilità da parte del proprio personale, ma il caso diverrà un’imputazione per crimini di guerra. Durante le indagini, si riscontra che Smith viene ucciso durante una vera e propria “battuta di caccia” che coinvolge carabinieri e civili del posto: One Salvatore Paracuollo, Vice Brigadiere of Carabinieri at Bracigliano, being aware that the said New Zealanders were in the neighbourhood, armed several of the local Italian civilians and ordered them to search for them, and if found to kill them. Among the civilians so instructed was one Giuseppe Basile of Bracigliano. The said armed civilians came upon the said three New Zealanders (who were in khaki uniform and without firearms) near the village of Volturare [Volturara Irpina, nda] near Bracigliano and called on them to stop; which they did, offering no resistance, and holding up their hands by way of surrender. Notwithstanding this, the said Basile fired one, or it may be two, shots from his gun (probably a shot gun) at a distance of 15 to 20 meters. […] The incident was reported to the said Salvatore Paracuollo at the Carabinieri Station at Bracigliano, who ordered the said Smith to be brought to that Station; but on arrival there, he was dead. About a month later, the said Paracuollo paid the said Basile 60 lire for assistance in the matter. [TNA, WO 311/331] Nel corso delle indagini e del processo – celebrato nel marzo 1946 – il medico che aveva esaminato il corpo di Smith riferisce che i colpi (quattro, del calibro di due armi diverse) erano stati sparati da una distanza di 6-7 metri da armi da caccia. A quanto pare, si riteneva che si trattasse di paracadutisti, riguardo ai quali era diffusa una vera e propria fobia (i testimoni sostengono di aver ritenuto che i soldati nemici potessero aver avvelenato una sorgente). Paracuollo si difende dicendo che la squadra di civili era stata organizzata dal locale capo del fascio, ma altri partecipanti alle ricerche lo smentiscono sostenendo che fosse stato lui a organizzare tutti loro, compresi i fascisti. Salvatore Paracuollo viene condannato a 20 anni di prigione, subito ridotti a 10, mentre Giuseppe Basile a 15 anni, ridotti a 8 (o a 7, le fonti si contraddicono). Detenuti a Procida nel dopoguerra, verranno rilasciati nella prima metà degli anni Cinquanta.

  • Nella notte tra il 17 e il 18 agosto 1942, due giovani ufficiali, il capitano Kenneth Amyot Mitchell e il tenente Joseph Henry Reeves, muoiono tentando la fuga da Capua. Il primo viene ucciso durante la fuga, l’altro muore all’ospedale di Caserta il giorno dopo, per le ferite ricevute. Tra i loro effetti personali vengono rinvenute alcune di pane e qualche scatoletta della Croce Rossa, già aperta – si tratta di uno stratagemma utilizzato regolarmente per impedire le fughe – nascosti in una sacca. Secondo la dichiarazione del comandante del campo, il col. Nicoletti, Mitchell e Reeves hanno lasciato il perimetro attraverso una porta d’accesso, e poi, superato il filo spinato, si sono trovati all’aperto. Vengono però subito inseguiti dalle sentinelle: il ventiduenne Mitchell viene ucciso in un uliveto dove ha tentato di nascondersi; il secondo, di dieci anni più anziano, sebbene colpito continua a correre, ma poi viene centrato di nuovo. A Mitchell vengono resi gli onori militari dal comandante del campo, ma contemporaneamente il ministero della Guerra assegna premi in denaro e licenze alle sentinelle responsabili della ricattura dei fuggitivi. L’inchiesta britannica successiva alla guerra avanza il sospetto che su Reeves le guardie abbiano continuato a sparare mentre egli era già a terra. Secondo una fonte, era stato lui stesso, prima di morire, a raccontare un compagno che egli «was in a field beyond the […] wire when he was hit. […] he lay [sic] on the ground to give up: the Italian Guard approached him and fired a burst into him, afterwards kicking him in the chest» [TNA, WO 311/1188]. I dati medici discordano: quelli italiani riferiscono che le ferite sul corpo di Reeves fossero dieci, sulle natiche, sulle cosce, sulle gambe e al perineo; quelli britannici, invece, fanno riferimento ad almeno tre raffiche e 28 ferite, sulle cosce, il torace e l’addome (cosa che dimostrerebbe dei colpi frontali, non alla schiena di un uomo che fugge). Inoltre, forse il corpo martoriato del tenente era stato effettivamente calpestato. Ad ogni buon conto, l’indagine britannica non ha seguito giudiziario perché i tre indagati – i soldati Antonio D’Angelo, Luca De Crescenzo e Alfonso Esposito – nel 1947 risultano irrintracciabili. Per quanto riguarda Nicoletti, incredibilmente non viene ritenuto responsabile né in questo né in altri casi, perché si valuta che egli non fosse stato in grado di esercitare un controllo e un comando efficace sui propri sottoposti, che agivano d’iniziativa e in piena autonomia.

  • Il 12 novembre 1942 viene ucciso, di nuovo durante un tentativo di evasione, il fuciliere britannico, di 25 anni, Colin Davies. Il fatto avviene dopo le 17, quindi già con il buio: il fante Perrotta, che è di guardia, sente le grida di un collega e vede un prigioniero saltare giù dalla palizzata del campo. Apre dunque il fuoco. Anche l’altra sentinella spara. Il prigioniero, colpito, viene portato all’ospedale militare di Caserta, dove muore una settimana dopo. Alle due guardie viene data una licenza premio di 15 giorni. Il Jag britannico non ritiene che il caso possa essere considerato un crimine di guerra, e non apre alcuna inchiesta.

  • Il 19 aprile 1943, il ventiseienne soldato britannico James Smith riesce a scappare dal campo ma, rintracciato, viene ucciso da una guardia mentre tenta di sottrarsi alla ricattura. Con Smith sono scappati due commilitoni, uno dei quali vestito da soldato tedesco, e gli altri con indosso divise americane. Il piano era di fingere che il “tedesco” facesse da scorta agli altri due, e poteva anche funzionare, dato che un settore del campo di Capua è all’epoca destinato a soldati americani prigionieri della Wehrmacht. Solo che i tre non riescono ad allontanarsi abbastanza e si rifugiano in un campo di grano, dove vengono scoperti dalle sentinelle italiane. Una di queste – il soldato Giuseppe Cocco, che poi avrà il consueto premio in denaro e licenze – apre il fuoco su Smith, uccidendolo, nonostante, secondo i suoi compagni, egli abbia le mani alzate e implori pietà. Cocco, ritenuto colpevole dell’uccisione di James Smith, nel febbraio 1947 viene condannato a morte, pena subito commutata in ergastolo, che comunque non sconterà, perché, detenuto a Procida, verrà anch’egli rilasciato nella prima metà degli anni Cinquanta.


Le uccisioni durante le fughe non sono le uniche ragioni per le quali, nel dopoguerra, le autorità britanniche aprono procedimenti di indagine relativi al campo di Capua. Anche le “sole” violazioni della Convenzione di Ginevra, per quanto riguarda le condizioni di trattamento dei prigionieri, sono, infatti, numerosissime. Oltre alle condizioni del campo, delle quali si è detto, non di rado, ad esempio, vengono attribuite ai prigionieri punizioni spropositate, come quella comminata al fuochista James Downey, 100 giorni di isolamento (scontati nel sito campano e poi a Pian di Coreglia) per aver, a parere dei detentori, insultato Mussolini e i suoi soldati in una lettera a casa (Downey ha scritto che le sentinelle italiane elemosinano cibo e che «Mussolini was a fool coming into the war and he probably realises it by now» [TNA, WO 311/317]). Ancora, alcuni prigionieri vengono obbligati a svolgere lavoro proibito, perché connesso allo sforzo bellico del detentore, e pericoloso, perché svolto in aree a rischio come l’aeroporto di Pontecagnano (SA), dove il 20 luglio 1943 quattro di loro vengono uccisi in un raid aereo alleato: si tratta di soldati appartenenti alle forze sudafricane, due ai Native Military Corps – A. Ramabuya e L. Ncube – uno ai Cape Corps, W. Filander, e uno agli Indian and Malay Corps, M. Hendricks. Vengono sepolti presso il cimitero di guerra di Salerno.
Nel campo di Capua avvengono anche altri tipi crimini di guerra: nel giugno 1943, probabilmente il 10 di quel mese, un soldato di colore delle forze sudafricane, Jacob Gedile, viene ucciso da una sentinella italiana che reagisce male al suo rifiuto del lavoro.
Nella lista dei war criminals compilata dai britannici alla fine della guerra compare tutto lo straff del campo. Uno dei principali indagati è, si è detto, il comandante il col. Guglielmo Nicoletti, che però non arriverà mai a processo.
Il campo, che viene probabilmente usato per i profughi nel dopoguerra, non ha lasciato tracce né memoria sul territorio.

Fonti archivistiche

Bibliografia

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