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Albert Edward G. Clapson

Lance Corporal 2nd Battalion, The Cheshire Regiment

Albert è catturato a Tobruk nel giugno 1942. Dopo una prima prigionia a Tripoli, transita presso il PG. 66 di Capua. È successivamente ricoverato presso l’Ospedale Militare di Roma a causa di una polmonite. Nel marzo del 1943 giunge presso il PG.54 di Fara Sabina.

L’8 settembre 1943, quando nel campo si diffonde la notizia dell’armistizio, Albert, da nove mesi prigioniero, «si sente come un uccello quando trova la porta della sua gabbia aperta: non sa cosa fare».

Erano circa le quattro del pomeriggio e io e il mio compagno eravamo nel tendone a chiederci cosa sarebbe successo ora che l’eccitazione della mattina era svanita e noi eravamo ancora lì. […] Uscendo fuori vidi che una grande folla di prigionieri di guerra si era radunata e stava gettando coperte sul recinto di filo spinato per coprire le sbarre e il recinto veniva spinto in avanti dal peso degli uomini. Mentre questo accadeva, le guardie italiane scendevano dai posti di guardia.

Tornammo entrambi presso il tendone per raccogliere la nostra coperta e il cibo che ci era rimasto. Ci vollero solo pochi secondi per raccogliere i nostri pochi effetti personali e uscire di nuovo all’esterno per scoprire che il campo era quasi deserto. Non abbiamo perso tempo ad attraversare il tappeto di coperte che copriva le recinzioni di filo metallico appiattite.

Albert e il suo compagno [un soldato inglese di cui non conosciamo il nome] si dirigono verso i monti che hanno più volte intravisto dal campo con l’obiettivo di raggiungere le linee alleate. L’idea è quella di allontanarsi dalla zona nel minor tempo possibile. Camminano fino a sera, imbattendosi in numerosi gruppi di altri prigionieri fuggiti dal medesimo campo. Vista la confusione presente nell’area, decidono di evitare ulteriori spostamenti e di fermarsi per qualche giorno in mezzo alla boscaglia. È durante il secondo giorno di permanenza tra la vegetazione che si imbattono in un italiano: è un ex marinaio che ha vissuto negli Stati Uniti con cui riescono a scambiare qualche parola in inglese. L’uomo proviene da Monteflavio (Roma), un paese a circa mezzo chilometro di distanza. Lo seguono mentre si mette ad arare un piccolo appezzamento di terreno e condividono con lui la colazione. A sera questi li invita presso la sua abitazione per prendere del cibo: «la nostra prima esperienza in una casa italiana». Ben presto Albert e il suo compagno si rendono conto di poter contare sull’aiuto della popolazione, che presta loro soccorso nonostante gli appelli tedeschi promettano ricompense a chi favorisce la ricattura dei militari in fuga.

Ben presto scoprimmo che in questa zona la gente era molto legata alla natura. Avevano una vita dura; i bambini avevano pochissimo da mangiare e la maggior parte di loro era senza scarpe, come abbiamo capito più tardi quando siamo stati accolti in tante case. Persone meravigliose, nonostante l’incredibile povertà, anche per gli standard del tempo di guerra, e siamo stati molto fortunati che abbiano condiviso il loro poco cibo con noi, che solo poche settimane prima eravamo loro nemici. […] La gente è stata molto buona con noi. Vivevamo di speranza e di una fetta di pane la maggior parte dei giorni.

Rimangono in zona per tutto il mese di settembre, sperando in una rapida avanzata degli alleati. Verso la fine del mese incontrano Tony, che li ospita presso la sua casa e dà loro da mangiare. La zona è spesso battuta da tedeschi e fascisti in cerca di prigionieri. Tony si offre di nasconderli presso una capanna tra la boscaglia difficilmente individuabile: rimangono nascosti di giorno e a sera si spostano nella sua casa per la cena. In quelle settimane alcune aerei della RAF sorvolano la zona lanciando a terra grandi volantini. Si tratta di stampe che mostrano l’ubicazione delle truppe alleate. Le mappe dell’Italia si dimostrano utili, confermando la loro posizione rispetto a Roma. Albert sa ora che una parte delle truppe alleate è a Pescara, un’altra presso Campobasso, e che per raggiungerle è necessario attraversare la dorsale appenninica. L’obiettivo è quello di arrivare in pianura prima che si intensifichi il freddo invernale.

I due fuggitivi decidono quindi di mettersi in viaggio, lasciano un biglietto in inglese da consegnare agli alleati in favore di Tony, sperando potesse essere ricompensato per l’aiuto offerto.

Durante il tragitto si imbattono nel Sergente Bill Davis, evaso anche egli dal PG. 54, che decide di unirsi a loro. Insieme costeggiano la strada Roma-Pescara, in cui transitano camion e carri armati tedeschi e che funge da attraversamento dell’Appennino. Durante il percorso, nonostante l’area sia piena di tedeschi, ricevono cibo e ospitalità dalla gente del posto.

Una sera di metà novembre, mentre avanzano lontani dalle strada principale, vedono venire nella loro direzione due civili:

Era ormai il crepuscolo e abbiamo augurato loro la buonanotte in italiano. Con nostro sgomento ci risposero con l’inconfondibile accento dei tedeschi che cercavano di parlare in italiano. Non ci preoccupammo più di tanto, eravamo in tre; se non erano armati tutto sarebbe andato bene. Ci parlarono in un italiano stentato come il nostro. Hanno esibito i loro libretti-paga e dopo un miscuglio di parole in tre lingue abbiamo concluso che erano disertori dell’esercito tedesco. Questa è stata la cosa più bella! Pensavo di aver già visto e sentito molte cose. Quindi c’erano dei disertori nel loro esercito!

I due tedeschi si offrono di aiutarli nel reperire cibo e un posto per passare la notte. Albert e i suoi compagni li seguono, non senza timore, ricevendo pane, formaggio, salsicce, vino, latte e frutta e trovando ospitalità presso un’abitazione nei dintorni. All’alba, senza attendere l’arrivo dei disertori che hanno promesso di scortarli verso sentieri più sicuri, si allontanano per riprendere il loro viaggio.

Intorno al 10 dicembre valicano gli Appennini, tra la neve e il ghiaccio, e trascorrono una notte al gelo in una capanna di carbonai. All’alba scendendo a valle e raggiungono il fiume Sangro nei pressi di Villetta Barrea (L’Aquila). È presso un sentiero che percorrono in zona che si imbattono in tre ufficiali tedeschi.

Erano sorpresi quanto noi. Uno di loro parlava inglese e ci chiese di quale unità fossimo. Poiché eravamo in uniforme, credo abbiano pensato che fossimo parte di una pattuglia alleata. Quando si resero conto che eravamo disarmati e mal equipaggiati capirono che eravamo prigionieri di guerra in fuga. Non avevamo altra scelta che dire chi eravamo. Il tedesco di lingua inglese disse agli altri due chi eravamo e si rivolse a noi tre dicendo: “Se aveste fatto solo un altro chilometro attraverso quegli alberi sareste stati a casa per Natale”.

È il 13 dicembre 1943. Albert ricorda la delusione provata e il tentativo di focalizzare i proprio pensieri su come fuggire di nuovo. Inaspettatamente vengono trasportati presso un fienile: all’interno una trentina di ex prigionieri che, come loro, non sono riusciti a raggiungere le linee alleate. Accomunati da esperienze simili, si scambiano racconti e speranze.

Il sole splendeva attraverso le fessure dei muri e io ero chiuso in questo fienile con i miei compagni. Grazie al cielo guardavamo al lato positivo e progettavamo di scappare. Sapevamo che le nostre truppe non erano lontane e speravamo in una loro avanzata che ci avrebbe evitato di essere spediti in Germania.

Qualche ora più tardi i tedeschi ordinano loro di scaricare da alcuni veicoli in sosta enormi granate. Albert e gli altri militari protestano con le guardie dicendo che si tratta di una violazione della convenzione di Ginevra, ma in risposta ottengono solo pesanti minacce. Più tardi, però, un nuovo ordine dà loro ragione e vengono spostati ad altra mansione: scaricare pacchi colmi di cibo. Si accorgono che al loro posto sono subentrati soldati italiani prigionieri, a cui i tedeschi riservano un trattamento ben peggiore.

Quello stesso giorno sono trasferiti qualche chilometro più a nord, presso una abitazione privata nei dintorni di Opi (L’Aquila) e lì rinchiusi in una stanza di piccole dimensioni.

Fino a quel momento avevamo vissuto di speranza, ma ora cominciavamo a sentirci piuttosto giù, fisicamente e mentalmente. Il sergente di colore [Davies] che si era unito a noi durante la marcia da Monteflavio era stato portato via dal nostro gruppo. Ero ancora con il mio amico Geordie [nomignolo dato agli abitanti del nord-est dell’Inghilterra] dei giorni dell’Ospedale di Roma e del Campo 54. Questa nuova vita dietro il filo spinato sarebbe stata abbastanza difficile dopo tre mesi di libertà. Era trascorso un anno e mezzo da quando ero stato fatto prigioniero nel deserto.

Albert viene in seguito traportato a Frosinone, in una caserma militare occupata da prigionieri di guerra alleati ricatturati da tempo. La struttura è fatiscente e il cibo scarso. Si offre volontario per partecipare ad alcuni lavori di scavo, nella speranza si possa presentare qualche occasione per evadere. Alcuni giorni più tardi, aerei della Royal Air Force bombardano un’ala della caserma, seriamente danneggiata: l’attacco risolleva il morale dei prigionieri, che, tuttavia, nei giorni a seguire vengono nuovamente spostati.

Una mattina circa duecento di noi furono riuniti e portati in strada in un luogo che pensavamo non avremmo mai più rivisto. Era il vecchio Campo 54 da cui eravamo fuggiti tre mesi prima. Era ormai abbandonato; i tendoni crollavano e c’era fango dappertutto (ma sì, avete indovinato, il filo di ferro era stato rimesso in piedi all’estremità inferiore del complesso da dove ci eravamo congedati). I letti erano tutti spariti, lasciandoci il pavimento di terra battuta.

Dopo due giorni di permanenza nella struttura vengono nuovamente trasferiti, questa volta vicino Rieti, dove Albert è definitivamente separato dal compagno con cui ha condiviso nove mesi di vita. È un periodo molto duro.

Nei giorni a seguire, inizia il suo viaggio verso la Germania. Vano è ogni tentativo di fuga dai vagoni in cui lui e altri militari sono stipati senza cibo né acqua. Il 22 dicembre 1943 transita dal Brennero per raggiungere lo Stalag 4B di Mühlberg.

Il treno partì e viaggiò per circa mezz’ora. Alla fine si fermò in quello che poteva essere un campo. Quale che fosse, era ricoperto di neve. Lo scoprimmo quando le porte furono aperte e le guardie iniziarono a urlare (ormai ci eravamo abituati). “Raus, raus!”

Albert è liberato dalle forze americane nell’aprile del 1945, quando viene finalmente rimpatriato.

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Fonti