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Michael Wagner

(1917-2017)

MBE, The Welch Regiment

Il Maggiore Michael (Mick) Wagner, del Welch Regiment, è catturato, assieme ai suoi due compagni John Maides e Bill Bulmer, tra Bengasi e Agebadia, in Libia, il 30 gennaio 1942. Ha ventiquattro anni. Dopo una lunga permanenza presso il PG.32 di Padula (Salerno) viene trasferito, nel luglio 1943, presso il PG. 19 di Bologna in cui rimane fino all’armistizio:

Stavamo giocando a baseball quando tre ufficiali italiani sono entrati nel campo e hanno chiesto di vedere il Senior British Officer. Dieci minuti dopo, questi ci comunicò che c’era stato l’armistizio.  […]. Fu deciso che ciascuno di noi avrebbe ricevuto un pacco di cibo della Croce Rosse e che avremmo dovuto preparare alcune cose necessarie per essere pronti a lasciare il campo all’alba del mattino successivo. Purtroppo le cose non andarono come previsto.

I tedeschi, infatti, prendono il controllo del campo già all’alba del 9 settembre e, probabilmente informati dagli ufficiali italiani circa la possibilità di una evasione di massa, provvedono a circondare la struttura con truppe e mezzi, rendendo impossibile qualsiasi tentativo di fuga. Mick, John e Bill, assieme a Peter Laidler e Alistair Capes, discutono sul da farsi:

Bill (terzo da sinistra) John e Mick (in ordine, a seguire) nel giorno del matrimonio di Bill, poco dopo essere rientrati in Inghilterra. Giugno 1942.
Fonte: M. Wagner, B.Blumer, J. Maides, A long, long way to go home

Di una cosa eravamo certi: non avevamo voglia di rimanere ancora a lungo prigionieri e, se non avessimo tentato una evasione nei giorni a seguire ci saremmo ritrovati in Germania. Allora ci sarebbero state anche meno possibilità di fuga di quelle prima dell’armistizio in Italia; eravamo abbastanza certi che saremmo stati trasferiti nei prossimi giorni. Non avevamo tempo da perdere.

L’evacuazione del campo non si fa attendere: i cinque decidono di utilizzare una piccola botola al di sopra dei lavatoi per nascondersi nel sottotetto della struttura. L’idea funziona e dalla loro posizione assistono al progressivo svuotamento del campo. Rimangono nell’intercapedine per due giorni, al termine dei quali decidono di uscire e di tentare la fuga aprendo un varco nel filo spinato, nonostante le pattuglie tedesche presidino ancora i luoghi.

La fortuna li assiste e riescono a dileguarsi nella notte, trovando rifugio presso la famiglia Medici, che abita nei dintorni del campo, da cui ricevono cibo e abiti. Non hanno una bussola né una mappa, ripartono con l’obiettivo di raggiungere la Repubblica di San Marino, dove sperano possano presto essere raggiunti dalle truppe alleate. Lungo il cammino, per non destare troppi sospetti, il gruppo decide di dividersi: Mick, John e Bill proseguono insieme, così come  Peter e Alstair.

Il percorso del Maggiore Wagner attraverso le campagne emiliane procede senza grandi intoppi, anche grazie all’assistenza dalla popolazione contadina, presso cui i tre trovano spesso rifugio e un pasto da consumare: «Eravamo di ottimo umore mentre camminavamo attraverso i vigneti, soprattutto perché ora ci rendevamo conto che potevamo sperare nell’aiuto dei contadini».

Dopo essersi avvicinati a Rimini, raggiungono San Marino:

Dopo alcuni minuti in cui siamo stati osservati da un gruppo di sammarinesi, questi ci hanno avvicinati con cautela per sapere chi fossimo. Non appena si sono convinti che eravamo inglesi, la loro accoglienza è stata piuttosto travolgente. Fummo portati in una casa e apparve una bottiglia di vino italiano frizzante. Tutti cercavano di darci pacche sulle spalle, stringerci la mano e baciarci; erano felici e ridevano. […] Più tardi ci dissero che avremmo trovato ospitalità in una fattoria non lontana.

Mick e i suoi compagni rimangono presso la famiglia che li ospita per dodici giorni aiutando nei lavori dei campi. Il piacevole interludio viene, tuttavia, interrotto bruscamente quando si diffonde voce che i tedeschi hanno occupato San Marino. I tre si rimettono in viaggio con l’obiettivo di arrivare a Sud prima dell’inizio dell’inverno.

Eravamo molto più fiduciosi ora, parlavamo meglio l’italiano ed eravamo in condizioni fisiche migliori di quando avevamo lasciato Bologna. Il tempo trascorso con quella simpatica famiglia ci aveva fatto molto bene e avevamo messo su peso, in più ci sarebbe stata ancora dell’uva non raccolta sulle vigne da mangiare durante il tragitto.

Frontespizio delle memorie di Bill, John e Mick
(MSMT Archive)

Presso Cagli (Pesaro) prendono un treno che li porta Sassoferato (Ancona), da qui si avvicinano a Fabriano e raggiungono il villaggio di Collamato (Ancona), dove prendono contatti con “Gigi” Cardona, ex tenente dell’esercito italiano, originario della Calabria e a capo del gruppo partigiano “Tigre”, che opera nell’area di San Cataldo, nelle vicinanze di Esanatoglia (Macerata), con un gruppo “misto” di cui fanno parte cinque italiani, una dozzina di jugoslavi fuoriusciti da un campo di internamento per civili e il sud africano Bob Turner. La formazione ha stabilito la propria base nell’omonimo santuario posto in cima alla rupe che domina la valle. Altre aggregazioni partigiane si sono formate nella zona: è tale il gruppo dell’Eremita, che si organizza proprio a Esanatoglia.

Siamo a fine ottobre e Mick e i suoi compagni si rendono conto che l’inverno è ormai alle porte: un pericoloso ostacolo da affrontare sulle alture del Gran Sasso, verso cui sono diretti con l’intento di raggiungere le linee alleate. Decidono allora di trascorrere la stagione fredda fermandosi in zona. Stazionano tra San Cataldo, Esanatoglia e Collamato, da novembre a fine marzo ’44, curati e accolti dalla popolazione del luogo.

Come lo stesso Mick ricorda nelle sue memorie, i tre compagni partecipano con poco entusiasmo alle attività partigiane con cui sono venuti in contatto, dal momento che il loro obiettivo primario rimane quello di raggiungere gli alleati e tornare a casa. Si impegnano, in tal senso, in attività di sabotaggio, come il taglio di linee telefoniche ed elettriche e nell’intralciare i trasporti tedeschi, ma rifiutano di prendere parte alle azioni dirette contro il nemico, intraprese e spesso cercate dai partigiani jugoslavi. Due modi diversi di agire che creano presto tensioni e incomprensioni e rispetto a cui lo stesso Cadorna si trova nella delicata posizione di dover costantemente , e spesso senza successo, mediare.

Non eravamo allenati, equipaggiati e neppure avevamo la minima intenzione di essere coinvolti fino in fondo in attività di tipo terroristico contro i tedeschi. […] Inoltre credevamo, e in seguito fu dimostrato che avevamo ragione, che un’azione offensiva indiscriminata avrebbe portato a rappresaglie contro la popolazione locale che si dimostrava con noi amica.

Proprio l’uccisione di due tedeschi, il 24 febbraio 1944[1], a Esanatoglia, da parte di alcuni slavi del locale gruppo partigiano, scatena le proteste di Mick e dei suoi compagni, timorosi di possibili rastrellamenti in zona. Gli jugoslavi, in risposta, li chiudono in una stanza dell’eremo per alcuni giorni. Solo l’intervento di Cadorna riesce a farli liberare, ma il gruppo è ormai spaccato. I tre decidono di abbandonare in gran segreto la zona e di rimettersi in cammino.

Lasciammo San Cataldo in quello che doveva essere l’inizio di aprile 1944, con emozioni contrastanti. Erano stati quattro mesi interessanti, a volte molto eccitanti, comunque memorabili. Avevamo conosciuto nuovi amici ed eravamo dispiaciuti di lasciare gli abitanti del luogo che ci avevano aiutati così generosamente, preoccupati anche per la loro sicurezza. Eravamo anche dispiaciuti di lasciare il gruppo con il quale avevamo condiviso tante esperienze, in particolare il tenente Cardona. Anche tra gli jugoslavi c’erano persone a cui ci eravamo affezionati, in particolare Dimetri (Pop), il cuoco, con cui avevamo stretto una vera amicizia.

Mick e i compagni stabiliscono di dirigersi verso Fabriano, dove sperano di incontrare un altro ufficiale britannico in fuga, David Williams, dal quale avevano avuto nei mesi precedenti notizie circa la presenza di un’organizzazione clandestina impegnata nell’evacuazione dei prigionieri. Questi fornisce loro indicazioni e un indirizzo a cui potranno rivolgersi. Si mettono in marcia verso Ancona e giungono nella destinazione indicata.

Fummo condotti in una casa isolata e portati in una piccola stanza davanti a una guardia completamente armata che, con nostro grande stupore, riconoscemmo essere un soldato britannico. Sdraiato su un letto in pigiama c’era l’uomo che dovevamo vedere. La sua uniforme era adagiata su una sedia, a portata di mano il fucile e la pistola. Infondeva una strana sensazione, molto rassicurante. I distintivi di grado appuntanti sull’uniforme erano quelli di maggiore e anche se non ci comunicò il suo nome, fummo in seguito abbastanza certi che si trattasse di Jock McKee e che lavorasse con la sezione N dell’organizzazione conosciuta come Mi9.

Ricevono istruzioni di dirigersi nelle vicinanze di Grottazzolina (Fermo). Da qui, muovendo verso la costa, sarebbero stati evacuati via mare alla fine del mese di aprile: «È stata la notizia migliore che abbiamo sentito dopo molto tempo e il nostro morale si è sollevato». È, tuttavia, un’euforia che non dura a lungo: all’avvicinarsi della data d’imbarco, le non sicure condizioni di navigazione richiedono che l’operazione sia rimandata di un altro mese. Un’amara delusione. I tre vengono fatti alloggiare separatamente, Mick in un vecchio mulino, Bill e John in casa di contadini.

È intorno al 22 maggio ’44 che hanno finalmente buone notizie: la missione che li porterà a casa, questa volta, sembra partire davvero. In barca raggiungono Termoli e da lì sono condotti a Napoli dove sono interrogati.

Salpammo da Napoli all’inizio di una traversata tranquilla verso casa. Eravamo impazienti di essere in viaggio e desiderosi di essere di nuovo in Inghilterra, ma mentre guardavamo la costa allontanarsi, sentivamo una sorta di nostalgia per quello che ci stavamo lasciando alle spalle. Nessuno di noi è mai riuscito a togliersi l’Italia dal cuore.

Nel corso degli anni Mick, Bill e John sono tornati spesso in Italia, per salutare e ringraziare quanti li avevano aiutati. Con rammarico hanno scoperto come i loro timori si fossero concretizzati: una targa ad Esanatoglia ricordava come alcuni uomini del paese fossero stati fucilati per rappresaglia subito dopo la loro partenza[2].

Campi legati a questa storia

Fonti:
  • Roger Absalom, A Strange Alliance. Aspects of escape and survival in Italy 1943-45, Firenze, Olschki, 1991 (trad. it. L’alleanza inattesa. Mondo contadino e prigionieri alleati in fuga in Italia (1943-1945), Bologna, Pendagron, 2011);
  • Giuseppe Millozzi, Prigionieri alleati: cattura, detenzione e fuga nelle Marche 1941-1944, Fondazione Ranieri di Sorbello, Perugia, 2007.
  • Mick Wagner, Bill Blumer, John Maides, A long, long way to go home , [1990], private account: Monte San Martino Trust Archives: <https://archives.msmtrust.org.uk/pow-index/wagner-mick/>
  • Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia: http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=536

Note:

[1] In quell’occasione due ufficiali delle SS tedesche, provenienti da Matelica, si erano recati presso la conceria di Esanatoglia quando erano stati attaccati dai partigiani. Presi alla sprovvista, uno è ucciso sul posto, l’altro rimasto ferito, viene catturato. Condotti in montagna, finiscono in una fossa comune. Il fatto mette in allarme il comando tedesco di Matelica che fino a quel momento non aveva mostrato grande attenzione per la vicina Esanatoglia. Per la vicenda e le successive conseguenze: Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia: <http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=536>

[2] Il riferimento è agli episodi del 1 aprile 1944, quando i nazifascisti realizzarono un rastrellamento in montagna nel corso del quale venne ucciso, in località Lentino, Alberico Pacini, giovane che dopo l’8 settembre aveva aderito alla lotta armata. Vennero fucilati sul muro della chiesa di Santa Maria anche Vito Pistola e Amos Ubaldini, due civili innocenti. La rappresaglia faceva seguito all’uccisione di due tedeschi da parte di uno dei gruppi partigiani della zona in data 24 febbraio 1944. Cfr. nota 1.