Seleziona una pagina
w

John Muir

Lieutenant, Durham Light Infantry

John, al comando del Generale Archibald Wavell, combatte alla frontiera tra Egitto e Libia partecipando all’ “Operazione Brevity” (maggio 1941), che porta alla riconquista da parte delle forze britanniche di Fort Capuzzo. È tuttavia ferito e fatto prigioniero durante il successivo contrattacco nemico.

Dopo le prime cure prestate dai tedeschi, è trasferito in un ospedale militare italiano a Bengasi. Da Tarhuna, a sud di Tripoli, è imbarcato per l’Italia; giunge a Napoli e in treno è trasportato, con altri prigionieri, presso il PG  17 di Rezzanello (Piacenza). All’arrivo nella struttura, tuttavia, i militari vengono informati che non ci sono letti disponibili per tutti, quattro di loro sarebbero subito stati trasferiti in un altro campo, il PG. 78 di Sulmona.

John, animato costantemente dall’idea di una fuga, si offre volontario per il nuovo spostamento.

Durante la permanenza a Sulmona, verso la fine del 1941, partecipa all’organizzazione di un piano di evasione mediante la realizzazione di un tunnel sotterraneo.

Dopo aver tagliato il pavimento di cemento, scavammo un pozzo di sei metri di profondità e un tunnel di circa 35 metri che andava dalla baracca fino alla strada che correva fuori dal campo. Avevamo soltanto 10 metri da percorrere per raggiungere un punto adatto alla risalita, quando un pomeriggio gli italiani entrarono di corsa, andarono direttamente nella zona dei servizi igienici e lì sollevarono la botola che portava al pozzo. In quel momento io stavo lavorando alla parete.

Prima pagina del dattiloscritto di John Muir sulla sua esperienza di prigioniero in Italia.
(Fonte: MSMT Archive: <https://archives.msmtrust.org.uk/pow-index/muir-john/>

Nel maggio 1942, assieme ad altri prigionieri del campo, è trasferito presso il PG. 35 di Padula. Anche qui matura presto un piano per evadere, ma il suo proposito non trova adesioni, tenta comunque di dileguarsi attraverso il tetto di una delle baracche, venendo però presto scoperto.

Un mese più tardi, a causa della sua cattiva condotta, è spostato nuovamente, questa volta presso il PG. 5 di Gavi, campo di massima sicurezza sito all’interno di una antica fortezza, soprannominato la “Colditz italiana” e riservato a prigionieri “turbolenti”.

Neppure in questa nuova sede John si dà per vinto: con i compagni di cella, tra cui Hugh Baker e Trevor Neuendorf, si impegna nella realizzazione di un nuovo piano di fuga.

Il progetto prevedeva di sollevare la piattaforma metallica in uno dei bagni, di scavare nei sotterranei inutilizzati che sapevamo trovarsi sotto la fila di celle e di vedere dove si poteva arrivare. Ci è voluto circa un mese per rimuovere la pedana e scavare lungo il tubo delle acque reflue fino ai sotterranei. Siamo rimasti delusi nello scoprire che le pareti sul retro e all’estremità del sotterraneo corrispondevano alla roccia su cui era stata costruita la fortezza. L’altra parete laterale aveva una porta murata dalla quale rimuovemmo abbastanza mattoni per accedere a un passaggio che conduceva a un’altra porta murata. Abbiamo fatto un buco attraverso questa porta, che si apriva su un camminamento, costantemente utilizzato dagli italiani. Rimaneva quindi la parete frontale del sotterraneo. Abbiamo rimosso tre pietre pesanti e abbiamo iniziato a scavare un tunnel sotto il cortile della nostra cella verso il muro esterno della fortezza.

L’8 settembre 1943, avevamo percorso solo 3 o 4 metri.

Alla notizia dell’armistizio i prigionieri ricevono l’ordine di rimanere nella fortezza in attesa di notizie degli alleati. Nei giorni a seguire, però, i tedeschi prendono il controllo del campo e comandano loro di preparare i bagagli in vista di un imminente spostamento. John e altri compagni decidono allora di calarsi nei sotterranei scoperti durante i recenti scavi.  I tedeschi, tuttavia, si accorgono ben presto della sparizione di oltre 50 uomini e, muniti di una mappa della fortezza, scandagliano ogni angolo dell’edificio fino a trovarli.

Dopo la ricattura, il 16 settembre, tutti i prigionieri del campo vengono trasferiti prima a Piacenza, poi nei pressi di Mantova e lì caricati su treni merci. John, assieme a Hugh, è separato dagli altri compagni. Alla partenza del convoglio i venti uomini che lo occupano si mettono all’opera per aprire un varco attraverso le pareti di legno della carrozza. Dopo essere transitati per Verona, nella zona di Ala (Trento), John e Hugh saltano giù dal treno in corsa e si dirigono verso la boscaglia circostante, attraversando a fatica il fiume Adige. Usciti dall’acqua si rendono contro di essere malconci: John ha copiose sbucciature sulle mani e le gambe, gli abiti lacerati, Hugh delle evidenti distorsioni agli arti inferiori e fatica a camminare.

Pur con qualche perplessità decidono di bussare alla porta di un vicino casolare per chiedere aiuto. Qui, la padrona di casa li invita ad entrare e medica le loro ferite. Li informa inoltre che nella stessa area sono nascosti alcuni prigionieri slavi che fanno presto la loro comparsa. Tramite quest’ultimi, in procinto di partire, trovano ospitalità presso il paese di Avio (Trento) presso la casa di Emilio. Rimangono con la sua famiglia fino al 2 ottobre, quando il ginocchio e la caviglia di Hugh sembrano ormai guariti. È tempo di proseguire nel loro percorso.

Eravamo stati “equipaggiati” con abiti italiani e avevamo ricevuto una cartina stradale del 1932, quindi eravamo ansiosi di metterci in cammino. Abbiamo lasciato delle lettere a tutti i nostri amici italiani indirizzate alle autorità britanniche per informarli del grande aiuto che avevamo ricevuto.

L’intenzione dei due fuggitivi è quella di arrivare sul Lago di Garda, rubare una barca con cui effettuare la traversata e dirigersi poi a Como, dove sanno di poter trovare aiuto.

Giungono in prossimità di Torbole (Trento), il paese è però pieno di tedeschi, ripiegano allora verso Nago, ed entrano ad Arco, che scoprono però essere città ospedaliera con «croci rosse dappertutto e molti soldati tedeschi feriti». Dopo aver trovato rifugio presso un monastero, si allontanano dalla zona ripensando ai loro piani.

Avendo deciso che Como era fuori questione, decidemmo di provare a raggiungere la Svizzera nel suo punto più vicino (partendo da Tirano, Sondrio), soprattutto perché la zona non sembrava molto popolata; non ci rendemmo conto che questo era dovuto al fatto che era molto montuosa, come scoprimmo presto, e peggio ancora ci accorgemmo che tutte le valli erano ad angolo retto rispetto al nostro percorso.

È il 7 ottobre 1943, dopo aver lasciato Arco imboccano un sentiero ripido e faticoso. Nel tardo pomeriggio, sotto una pioggia torrenziale, arrivano presso il paese di Brione (Trento). Qui bussano alla porta di una casa. Moglie e marito li accolgono dando loro asciugamani, indumenti asciutti e cibo. Il giorno successivo, il figlio Silvio, tredicenne, li guida affinché possano riprendere il cammino lungo la via più sicura. Proseguono attraversando valli e sentieri e giungono a Capo di Ponte (Brescia). L’11 ottobre, in prossimità di Edolo, vengono sorpassati da un’auto con personale tedesco che, tuttavia, non si accorge della loro presenza. A sera trovano riparo in una fattoria. Hugh chiede al contadino che li ospita e a suo figlio di guidarli oltre il confine con la Svizzera, ma questi rifiutano. Apprendono, tuttavia, come il confine sia vicino: occorre attraversare il Monte Combolo, a metà tra i due territori.

Il 12 ottobre partono alle quattro del mattino e percorrono la strada che passa per Tirano, giungendo ai piedi della montagna verso le otto. Nel primo pomeriggio, dopo la salita, avvistano un blocco di cemento con su scritto “Svizzera” e sul retro “Italia”.

Cominciammo a camminare verso la Svizzera, ma all’unisono, senza dirci una parola, tornammo indietro verso l’Italia, unendo le mani e saltando una linea immaginaria tra i due blocchi. Un gesto infantile, ma espressione della nostra gioia di essere liberi dopo quasi trenta mesi di prigionia […].

 Credo fossero circa le 16.00 quando prendemmo un grande spavento: un soldato uscì da un nascondiglio con un fucile puntato su di noi e una voce alle nostre spalle ci urlò “Alt”. Le loro uniformi e i loro elmetti erano diversi da quelli tedeschi o italiani, quindi fummo felici di alzare le mani. Hugh disse in italiano che eravamo prigionieri fuggiti. Il soldato di fronte parlava un po’ di inglese, così gli dicemmo chi eravamo. Siamo stati scortati giù in caserma dove siamo stati accolti dal cuoco: “Ah, due ragazzi inglesi, prendete un po’ di tè?”

Fonti
  • Roger Absalom, A Strange Alliance. Aspects of escape and survival in Italy 1943-45, Firenze, Olschki, 1991 (trad. it., L’alleanza inattesa. Mondo contadino e prigionieri alleati in fuga in Italia 1943-1945, Bologna, Pendagron, 2011).
  • John Muir, memoria privata, [s.d.,] Monte San Martino Trust Archive: <https://archives.msmtrust.org.uk/pow-index/muir-john/>
  • Malcom Tudor, SAS in Italy 1943-1945: raiders in Enemy Territory, Forthill Media Limited, Stroud, 2018.