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Arthur Jobson

Arthur e suo fratello Tom, australiani, sono catturati il 27 luglio 1942 presso Miteirya (Ruin Ridge, Libia). Transitano per El Dabaa, Mersa Matruh e giungono a Bengasi, dove rimangono per circa quindici giorni. Da qui, «stipati come sardine» a bordo di una nave italiana, raggiungono la costa pugliese, venendo poi trasferiti presso il PG.85 di Tuturano (Brindisi).

Alcuni giorni più tardi sono presso il PG. 75 di Torre Tresca (Bari), dove ritrovano alcuni degli ufficiali del proprio battaglione. Il campo prevede che i due diversi ranghi alloggino in strutture separate e divise da filo spinato presidiato da guardie. A sera, ricorda Arthur, si tenevano concerti da entrambi i lati della recinzione e ciascun gruppo si metteva in ascolto da una parte e dall’altra.

In quei giorni contrae la malaria e viene ricoverato presso l’infermeria del campo.

Fonte: estratto delle memorie di Arthur Jobson (https://archives.msmtrust.org.uk/pow-index-2/jobson-arthur/)

Dopo essersi ristabilito, è parte di un gruppo di soldati che viene inviato a nord, presso il PG 57 di Grupignano (Udine), il principale campo per prigionieri di guerra australiani.

Giungono a Cividale dopo alcuni giorni di viaggio, Arthur è alloggiato, insieme al fratello, presso la baracca numero tre.

Nel mese di aprile viene mandato a lavorare nelle risaie della pianura padana. Il gruppo, circa 60 uomini, è trasferito in treno verso una non precisata zona tra Milano e Torino. Inizialmente alloggiati presso il municipio di un piccolo paese, sono poi smistati tra le cascine presenti nell’area.

Ai primi di agosto Arthur è nuovamente colpito da malaria, rimane in ospedale per quattro settimane, fino ai primi di settembre, quando lo raggiunge la notizia dell’armistizio:

Quella sera, dopo che uno degli ultimi gruppi era tornato dal lavoro, una delle guardie che aveva ascoltato la notizia arriva gridando: “La Guerra è finita! La Guerra è finita! Armistizio! Armistizio!” “È vero?” chiese un’altra guardia al cancello. Si, è l’armistizio”, fu la risposta. Allora la guardia alzò il fucile, puntò al cielo e svuotò il caricatore in quella direzione. Poi spalancò il cancello e le guardie si precipitarono dentro, stringendosi le mani con grande eccitazione.

Nei giorni a seguire i prigionieri rimangono nel campo a lavorare. Il terzo giorno l’ufficiale degli Alpini che comanda il campo chiede loro di decidere: restare o essere rilasciati. La maggioranza si esprime a favore della fuga.

Mentre raccoglievamo le nostre poche cose, la maggior parte delle guardie aveva fatto le valigie e ci aveva salutati. Bruno [una delle guardie che ha più solidarizzato con i prigionieri] fu l’ultimo a entrare. Si avvicinò a me e, indicando il nord, disse: “Arturo, Svizzera” e si congedò.

Arthur si allontana assieme al fratello e ad altri due compagni. Decidono però presto di sistemarsi presso una fattoria della zona che offre loro lavoro e alloggio, in attesa dell’arrivo degli Alleati che reputano imminente.

Quando scoprono che un proclama tedesco minaccia di morte chiunque avesse ospitato o aiutato i prigionieri di guerra alleati e offre una ricompensa per una loro riconsegna, decidono di mettersi in viaggio.

Su consiglio del fattore che li ospita, stabiliscono di dirigersi verso le Alpi per raggiungere la Svizzera.

Presso il santuario di Oropa (Biella) entrano in contatto con alcuni partigiani impegnati nell’assaltare i convogli degli approvvigionamenti tedeschi che giungono dalla Francia. Il gruppo è alla ricerca di venticinque volontari tra i prigionieri, Arthur e i suoi compagni si uniscono alla banda, ma vengono presto congedati a fronte della totale disorganizzazione del gruppo e invitati a raggiungere la Svizzera.

Di nuovo in viaggio attraverso le montagne, raggiungono Scopello (Vercelli) dove, accolti presso il bar del paese, vengono rifocillati e possono ascoltare notizie dalla BBC.

Sono quasi al confine con la Svizzera, quando un gruppo di persone del luogo li avverte della presenza di una pattuglia tedesca in zona. Si aggregano quindi a un gruppo di altri prigionieri già messi al sicuro da due guide locali presso una capanna, dove trascorrono la notte: sono sedici, pronti a valicare il confine.

La mattina dopo siamo partiti di buon ora e quando abbiamo raggiunto la cima del monte, una delle nostre guide ha indicato una catena più alta oltre la valle e ha detto: “Lì c’è la Svizzera”. Mi sarei sentito davvero male se fossimo stati presi dai tedeschi proprio ora.

Il percorso prosegue ai margini del villaggio di Macugnaga, occupato da una pattuglia di confine nemica. È li che le guide che li hanno in precedenza accompagnati li consegnano ad altri due accompagnatori che hanno il compito di scortarli fino al Passo del Monte Mora. Ai pochi soldati che indossano ancora le uniformi viene chiesto di sostituirle con abiti civili. Vengono a sapere che il giorno precedente diciannove prigionieri erano stati catturati proprio lungo il tragitto che avrebbero dovuto percorrere il giorno seguente.

Abbiamo consumato il pasto serale e poi ci siamo riposati. Ci siamo svegliati verso le 2 del mattino e alle 2.30 siamo partiti per l’ultima scalata. All’alba stavamo camminando lungo un sentiero largo circa un metro e mezzo affacciato su un precipizio che sembrava profondo più di trecento metri, mentre davanti a noi, per arrivare fino alla cima, c’era ancora un tratto lunghissimo. Siamo arrivati a un punto in cui il sentiero si arrestava, interrotto da una parete rocciosa. Il sistema per superare questo ostacolo consisteva in un foro scavato nella parete di roccia all’altezza delle spalle e in uno all’altezza dei piedi. Il foro superiore veniva afferrato con la mano destra e il piede destro veniva spinto nel foro inferiore. Guardando giù, nella fioca luce dell’alba, le conifere sotto di noi avevano dimensioni simili a quelle dei funghi.

Quando raggiungono nuovamente una zona meno accidentata proseguono in salita, mentre la guida che li accompagna si serve del binocolo per controllare gli eventuali movimenti dei tedeschi di stanza a Macugnaga, dal momento che, benché siano ormai più in alto rispetto al villaggio, risultano ancora alla portata delle mitragliatrici nemiche. Gli accompagnatori li lasciano appena prima di raggiungere la linea della neve, con l’avvertenza di evitare di spingersi oltre la cresta della catena sul versante sinistro, perché tale zona avrebbe potuto essere occupata da fascisti. Lungo il  percorso incontrano numerosi rifugiati, civili e militari, divisi in piccoli gruppi.

Raggiungono la cima del passo poco dopo mezzogiorno (altitudine 2.740 metri circa) dopo otto ore di cammino nella neve: di fronte a loro la Svizzera.

È il 2 ottobre 1943. Arthur vi rimarrà a lungo a lavoro in una fattoria.

Verrà rimpatriato, assieme a suo fratello da cui non si è mai separato, nel novembre 1944, dopo aver fatto tappa a Marsiglia e a Napoli.

Fonti
  • Roger Absalom, A Strange Alliance. Aspects of escape and survival in Italy 1943-45, Firenze, Olschki, 1991 (trad. it., L’alleanza inattesa. Mondo contadino e prigionieri alleati in fuga in Italia 1943-1945, Bologna, Pendagron, 2011).
  • Arthur Jobson, memoria privata, [s.d.,] Monte San Martino Trust Archive:https://archives.msmtrust.org.uk/pow-index-2/jobson-arthur/