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PG 106 - Vercelli

Autore/i della scheda: Isabella Insolvibile

Dati sul campo

Comune: Vercelli

Provincia: Vercelli

Regione: Piemonte

Ubicazione: Varie - Vercelli

Tipologia campo: lavoro

Numero convenzionale: 106

Numero di posta militare: 3100

Campo per: truppa

Giuristizione territoriale: Difesa Territoriale di Torino

Scalo ferroviario: Vercelli

Sistemazione: baraccamento

In funzione: da 04/1943 al 09/1943

Comando/gestione del campo: Magg. Rossi (aprile-giugno 1943); Magg. Carlo Ghirardi (agosto-settembre 1943).

Cronologia:
Primavera 1943: 28-29 distaccamenti di lavoro costituiscono il campo di Vercelli
4 giugno 1943: sciopero dei prigionieri di San Germano Vercellese
15 giugno 1943: uccisione del soldato John Ernest Law
8 settembre 1943: fuga dai distaccamenti

Presenza dei prigionieri alleati nel campo di Vercelli

Data Generali Ufficiali Sottufficiali Truppa TOT
30.4.1943       974 974
31.5.1943       1410 1410
30.6.1943       1526 1526
31.8.1943       1422 1422
 

Storia del campo

Il campo di lavoro di Vercelli è in realtà un campo “diffuso”, composto da almeno 28 distaccamenti sparsi nell’area circostante, ognuno dei quali accoglie dai 20 ai più di 100 prigionieri. Questa particolare struttura viene istituita nella primavera del 1943 e visitata dagli osservatori neutrali, per quanto riguarda alcuni siti, all’inizio del giugno di quell’anno. Al campo di Vercelli afferiscono più di 1.500 prigionieri in maggioranza australiani, ma anche britannici, neozelandesi e sudafricani. Sono tutti addetti a un’ampia gamma di lavori agricoli, dalla fienagione, al livellamento dei pascoli, all’edificazione di argini nelle risaie. A detta dei delegati, le condizioni di alloggio e trattamento sono soddisfacenti, fatta eccezione per l’inadeguatezza del vestiario, le installazioni sanitarie talvolta primitive e, soprattutto, i ritardi nella consegna di posta e pacchi. La ragione principale di protesta da parte dei prigionieri riguarda proprio i furti compiuti all’interno di questi ultimi, che arrivano ai distaccamenti con gravi ritardi e depredati di tutto. Alcuni dei reclusi sciopereranno per questa ragione.
Il 4 giugno 1943, ad esempio, i soldati impiegati in una tenuta di San Germano Vercellese rifiutano di lavorare perché le autorità del campo non hanno consegnato i pacchi della Croce Rossa. Secondo il rapporto della potenza protettrice, che per pura casualità si reca al distaccamento proprio il giorno dello sciopero, oltre a non aver ricevuto pacchi e sigarette, i prigionieri si lamentano perché non viene inoltrata loro la posta dal campo di appartenenza, i dormitori sono troppo affollati, il servizio medico inadeguato e, infine, non sono state consegnate loro le note di credito per il lavoro svolto.
Tenconi conferma l’“irrequietezza” di tanti lavoratori prigionieri del vercellese, sostenendo che, tra le cause delle proteste, vi è la consapevole volontà di nuocere in qualche modo al detentore:

Il perdurare di alcuni aspetti negativi nella vita dei distaccamenti, la solidarietà che legava tra loro i prigionieri e il desiderio di continuare a combattere seppur in altre forme il nemico, furono all'origine di svariate proteste e di molteplici azioni di sabotaggio che si verificarono nelle diverse tenute lavorative. Nel sottocampo numero I, il medesimo giorno della visita del funzionario della Croce Rossa, era in corso uno sciopero che fu sospeso solo quando il rappresentante dei prigionieri, dopo essere stato ascoltato dal comandante del campo, ricevette l'assicurazione che non ci sarebbero state punizioni legate all'agitazione. Nel distaccamento di Salussola (XIX) invece, le autorità dovettero contrastare la protesta dei soldati che si rifiutavano di prestare il servizio lavorativo procedendo ad alcuni arresti. L'intervento delle autorità, però, non servì a placare gli animi. Gli ottanta prigionieri di guerra del distaccamento, suddivisi equamente fra australiani e neozelandesi, passarono al sabotaggio degli strumenti di lavoro. In breve tempo l'attrezzatura fu dimezzata e, non potendo essere sostituita, in pratica i prigionieri si alternarono lavorando un giorno e riposando quello successivo. Ad Arro, invece, riuscirono a convincere le guardie che, in conformità ad un'abitudine neozelandese, avevano diritto ogni ora a dieci minuti di pausa sigaretta. Per sfuggire al lavoro in risaia, in un'altra circostanza, si appellarono ad un'inesistente clausola della convenzione di Ginevra secondo la quale i prigionieri non erano tenuti a lavorare in acqua. [Tenconi, Prigionia, sopravvivenza e Resistenza, p. 30]


Il caso di Vercelli dimostra comunque che, quando non si tratta di lavoro proibito o pericoloso, i prigionieri lo svolgono volentieri. Un’ex sentinella del campo 106 ricorderà successivamente che i soldati alleati arrivati nell’aprile del 1943 «avevano chiesto volontariamente di andare a lavorare con la speranza […] di stare meglio rispetto al campo di concentramento, dove la vita era noiosa, oltre che dura. Per godere un po’ di quella libertà a cui tutti i prigionieri anelavano, avere un po’ di svago e la possibilità, durante il lavoro, di avvicinare delle persone, cioè dei civili che a quei tempi […] lavoravano la terra» [Moranino, p. 44].
Nel distaccamento di Selve, frazione del comune di Salasco, lavora l’australiano Carl Carrigan, la cui esperienza è stata narrata dalla figlia nel modo seguente:

Le aziende agricole italiane, agli occhi dei contadini australiani, sembravano condotte con sistemi vecchio stile. Quella a cui Carl, Lloyd Ledingham, Paul e i due Ron furono assegnati aveva centonovantasette vacche di razza Frisona e dieci cavalli da tiro, nonché colture di grano, riso, mais e orzo. Alto quattro piani, l’edificio destinato all’allevamento ospitava cavalli, maiali e mucche, il granaio verso il fondo, gli alloggi della famiglia nella parte più alta. […] La mattina iniziava con la sveglia alle 6, seguita dalla colazione alle 7 e da mezz’ora di marcia per recarsi al luogo di lavoro. Dopo essere tornati agli alloggi per il pranzo, dovevano poi lavorare nei campi dalle 14 alle 18, prima di tornare per una cena a base di pasta e verdura. Carne e formaggio venivano serviti due volte alla settimana e tutto era accompagnato con due pagnotte. In quanto lavoratori agricoli, le razioni erano aumentate e integrate con tutto ciò che potevano trovare in giro per la fattoria. Uno dei primi lavori di Paul, Ron e Carl fu quello di preparare il terreno per coltivare insalata e fagioli. Furono create quattro squadre per lavorare nelle risaie […]. C’erano anche un lattaio, due giardinieri, un falegname e un fabbro e gli addetti al magazzino, un edificio in cui si teneva la macchina per battere il riso. […] Fare il lattaio era una grande opportunità per una persona affamata: Carl fu fortunato, perché questo lavoro gli permise di bere molto latte destinato al secchio. Altri scroccavano uova o qualsiasi altra cosa su cui potevano mettere le mani pur di placare la loro fame sempre presente. […] Il cibo continuava ad essere al centro della loro vita e quando sospettarono che vi fossero dei furti sulle razioni giornaliere a loro destinate, scesero anche in sciopero. Per due giorni gli uomini si rifiutarono di lavorare, chiedendo migliori razioni; alcune guardie che parlavano inglese ammisero che il cibo era stato rubato, ma assicurarono che questo non si sarebbe ripetuto; le verdure destinate ai prigionieri e trafugate furono trovate ormai marce durante un sopralluogo. Il comandante del campo presentò ai prigionieri la lista delle razioni e i criteri per controllare l’applicazione delle disposizioni, determinando un notevole miglioramento della situazione. [Carrigan, pp. 43-44]


Anche nei distaccamenti avvengono alcuni incidenti. Il più grave si verifica il 15 giugno 1943, quando il soldato australiano John Ernest Law, di 20 anni, viene ucciso da una sentinella mentre tenta di scappare dall’azienda agricola dove lavora a Carpeneto di Bianzè. La sentinella che ha sparato viene ricompensata con 200 lire e quindici giorni di licenza. L’indagine britannica accerta, in seguito, che, probabilmente, tra la vittima e la guardia c’era qualche accordo per la vendita di pane, ma poi le cose avevano evidentemente preso una piega diversa. Un testimone oculare dei fatti, commilitone e connazionale di Law, sostiene addirittura che il soldato italiano avesse ucciso il prigioniero per ottenere un encomio e una riabilitazione dopo essere stato punito perché trovato a dormire in servizio. L’indagine riscontra, in ogni caso, che il colpo è stato sparato da una distanza troppo ravvicinata perché la sentinella stesse davvero tentando di impedire la fuga di Law. La guardia, pur individuata, non verrà mai rintracciata.
Dei distaccamenti di lavoro di Vercelli la popolazione locale conserva memoria soprattutto perché, dopo l’8 settembre, molti di quegli ex nemici scappano e vengono aiutati dai civili italiani. Alcune fughe, tuttavia, avvengono anche prima dell’armistizio: il ventunenne australiano John Desmond Peck, catturato a Creta nel giugno 1941, secondo Absalom «non aspettò l’armistizio italiano per rendere la vita difficile al nemico e trascorse alla macchia undici dei ventisette mesi della sua vita da prigioniero di guerra» [Absalom, p. 73]. Peck infatti fugge già a Creta, e poi a Rodi, dove viene portato una volta ricatturato. Mandato in Italia nel settembre 1942, finisce a Grupignano da dove, un po’ improvvidamente dati i precedenti, viene distaccato per lavoro a San Germano Vercellese. Ci resta due mesi e poi scappa, riuscendo a rimanere alla macchia fino alla fine del giugno 1943:

In realtà – scrive Absalom – con un compagno riuscì anche a superare il confine con la Svizzera, ma poiché non si vedeva nulla se non altre spaventose catene di montagne e poiché avevano camminato per giorni senza toccare cibo, pensarono che non ce l’avrebbero fatta […] e perciò tornarono in Italia, dove trovarono “un pastore che promise di portare del cibo e invece portò i carabinieri». [Absalom, p. 75]


Dopo questa fuga, Peck si fa un bel po’ di isolamento e là lo coglie l’armistizio quando, neanche a dirlo, scappa per divenire uno degli organizzatori del salvataggio dei commilitoni dai rastrellamenti tedeschi.
Tuttavia, Peck non è il solo e neanche il più fortunato. Il sergente Edgar Nathaniel Triffett, nel luglio 1943, scappa dal distaccamento n. 106/2 di Tronzano Vercellese e riesce ad arrivare in Svizzera, a Zermatt, nel Canton Vallese, dove rimane nascosto fino all’armistizio, grazie all’aiuto di un prete. Dopo l’8 settembre, rientra in Italia e si unisce ai partigiani, per tornare in Gran Bretagna nel novembre 1944.
Le fughe postarmistiziali non sono, però, scontate. Presso il distaccamento n. 106/2 di Tronzano Vercellese, ad esempio, «il sottufficiale italiano in comando disse che avrebbe sparato a tutti coloro che avessero tentato la fuga», e allora «i prigionieri minacciarono di “catturare tutte le guardie” e poi abbatterono la recinzione e si dispersero» [Absalom, p. 140]. In un altro distaccamento, invece, l’ufficiale italiano consegna almeno 25 prigionieri ai tedeschi. In generale, tuttavia, la “grande fuga” dal vercellese riesce, e questo grazie ai rapporti instauratosi tra prigionieri e contadini nei mesi di lavoro comune che hanno preceduto l’armistizio.

Fonti archivistiche

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