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Daljit Singh Kalha

Royal Indian Army Service Corps (RIASC)

Il capitano Daljit Singh Kalha, appartenente al Royal Indian Army Service Corps (RIASC), viene catturato insieme ai suoi commilitoni a Tobruk il 28 giugno 1942 dalle forze tedesche. Dopo due giorni senza cibo, i prigionieri sono affidati agli italiani, che li spostano prima a Benghazi e quindi a Bari, in un campo di transito. Infine, Daljit si ritrova al PG 63 di Aversa, poco distante da Napoli. Nonostante il campo sia nel mezzogiorno, moltissimi prigionieri indossano abiti del tutto inadatti ad affrontare l’inverno. Le uniformi sono quelle per la guerra nel deserto e mancano perfino le coperte. Anche il cibo è scarso, e i prigionieri devono fare affidamento sui pacchi della Croce Rossa. Dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, iniziano pesanti raid aerei in tutta la zona e i prigionieri vengono spostati al PG 91 di Avezzano.

Daljit Singh Kalha, circa 1940.
Fonte: Archivio MSMT

Qui, Daljit inizia a maturare l’idea di evadere, anche grazie ai rapporti amicali che instaura con un lavoratore italiano, Domenico Fabriani, che svolge alcune riparazioni nel campo. È proprio Domenico ad avvisarlo che i tedeschi intendono deportare tutti i prigionieri in Germania e ad insegnargli i rudimenti dell’italiano. Daljit impara a parlare sempre meglio, e finisce addirittura a fare da interprete per il medico del campo, il dottor Boccaletti. I due italiani fanno parte di una rete di aiuto ai prigionieri di guerra, fornendo aiuto nelle fughe e organizzando poi il passaggio attraverso le linee del fronte.     
In settembre 1943, Daljit compie il suo primo tentativo di fuga. Grazie alla distrazione fornita da altri prigionieri, che si mettono a chiacchierare con le guardie, Daljit e il tenente Sandhu praticano dei fori nella recinzione e fuggono dal campo. Tuttavia, ben presto Sandhu si ammala e questo condanna la fuga al fallimento. I due vengono ricatturati dai tedeschi e ricondotti al campo, dove vengono torturati e messi in isolamento.

Questo non ferma i due ufficiali che, con la complicità del dottor Boccaletti, riescono a farsi ricoverare in un ospedale vicino, gestito da suore, le quali li prendono in carica e li aiutarono nell’ultima fase del piano di fuga. Daljit e Sandhu devono rinunciare ai loro turbanti Sikh, radersi i capelli e la barba, e vestirsi da civili, per mescolarsi con la popolazione. Altri italiani vengono a prenderli all’ospedale in bicicletta e i due riescono così ad eludere la sorveglianza tedesca, arrivando al villaggio di Luco dei Marsi (AQ).       
Nel villaggio i due si ricongiungono con Domenico, che vive lì. Grazie all’aiuto della popolazione, i due possono nascondersi nella zona, cambiando frequentemente il loro “alloggio” a seconda della necessità. Questi includono il granaio, per ripararsi dal freddo, ma anche una vicina caverna dove gli abitanti tengono i loro vitelli, e, in mancanza di meglio, i boschi. La popolazione fornisce loro cibo, nonostante la presenza costante del nemico che dà la caccia a partigiani e prigionieri fuggiaschi nella zona. Come molti altri prigionieri di origini indiane, Daljit e Sandhu decidono di non muoversi dal loro rifugio, propabilmente pensando che il loro aspetto li avrebbe traditi. I due vivono così per nove mesi, fino a quando gli Alleati non riescono a sfondare le linee tedesche e raggiungere Luco dei Masi. Daljit può così tornare a casa, in India, nel luglio del 1944, dopo due anni in Italia, trascorsi tra grandi privazioni e segnati dalla nostalgia, come lo stesso Daljit scrive: «questo lungo periodo di prigionia fa sì che per me sia quasi impossibile immaginare come sia vivere a casa. Come vorrei essere ancora sotto i cieli dell’est.»

Campi legati a questa storia

Fonti