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D’Arcy Mander

(1909-2000)

Distinguished Service Order (DSO), 4° Battaglione “The Green Howards”

Frank Unwin

(Liverpool, 1920 – Orpington, 2018)

MBE, Liverpool Territorial Army, Royal Artillery

Il Maggiore D’Arcy Mander è catturato a Ain el-Gazala-Derna, in Libia, il 1° giugno 1942, mentre è al comando del 4° battaglione Green Howards. È un ufficiale esperto di trentatré anni, ha già combattuto in Francia e Belgio, parla tedesco e, durante la detenzione, impara anche l’italiano.

Dopo alcuni giorni di prigionia in Nord Africa, tra Derna e Bengazi, viene trasferito in aereo in Italia, transitando per il PG 75 di Bari per poi arrivare, l’8 luglio, presso il PG. 29 di Veano (Piacenza), campo per ufficiali in cui trascorre, in buone condizioni, quattordici mesi.

La notizia dell’armistizio raggiunge i militari nel campo già l’8 settembre, alcune ore prima dell’annuncio ufficiale, salutata da fragorosi applausi. Ordine del Colonnello Younghusband, il Senior British Officer della struttura, è però quello di rimanere nel campo, in attesa di capire quali saranno le prossime mosse dei tedeschi. Due giorni più tardi, tuttavia, mentre sono in corso combattimenti nella vicina Piacenza, lo stesso ufficiale, di fronte all’allontanamento delle guardie italiane che aprono un varco d’uscita, comunica ai prigionieri che dal quel momento in poi sono liberi di decidere in autonomia cosa fare: molti scelgono di allontanarsi dal campo, abbandonandolo poco prima dell’arrivo dei tedeschi.

Tra i fuggitivi alcuni decidono di rimanere in zona, altri di dirigersi verso la Svizzera o Genova, dove corre voce sia prossimo uno sbarco alleato. D’Arcy, a capo di un piccolo gruppo, comunica che è sua intenzione incamminarsi verso Sud:

Li informai che era mia volontà dirigermi prima a Firenze [dove lo stesso ha una zia] e poi avanzare verso Sud nella speranza di incontrare partigiani o paracadutisti e venire così in contatto anche con missioni o mezzi alleati. […] Bill Syme, James Marshall, Joseph Maddox decisero di unirsi a me. Dovevamo avere un aspetto alquanto bizzarro: vestivamo abiti da battaglia da cui erano state rimosse le mostrine rosse, stivali dell’esercito e grossi cappotti; ciascuno di noi aveva con sé un fagotto o un pacchetto e molto altro infilato in tasca.

Mander e i suoi compagni avanzano “nell’ombra” lungo la dorsale appenninica, percorrendo sentieri periferici ed evitando villaggi e paesi. Ogni sera trovano ospitalità presso i contadini del luogo, in fattorie e casolari isolati, scoprendo come i più poveri siano di solito i più propensi ad aiutare e a condividere il poco che hanno, a differenza dei più ricchi che si mostrano spesso diffidenti e restii.

I contadini vivevano un’esistenza misera tra le montagne, ma erano sempre solidali e ben disposti nei nostri confronti. A rischio dei loro beni e della loro stessa vita ci offrivano cibo e riparo. Ricevevamo sempre qualcosa da mangiare e anche un po’ di pane per il giorno successivo. Per ripararci dormivamo nei  pagliai e nelle stalle, assieme ai maiali e agli asini.

Eravamo soliti lasciare un bigliettino alla famiglia da mostrare agli alleati affinché sapessero che quelle persone ci avevano aiutati.

Uno dei bigliettini lasciati da Mander alla famiglia Gandolfini, vicino Parma
(Fonte: D’A. Mander, Mande’s march on Rome)

Nel mese di ottobre, i fuggitivi stabiliscono che muoversi in quattro è troppo rischioso: Bill e James proseguono insieme verso l’Abruzzo, rimanendo però vittime di una valanga sul Gran Sasso; D’Arcy e Joseph continuano il percorso verso Firenze, raggiungendo le propaggini meridionali di Monte Giovi, sopra Fiesole.

Qui D’Arcy , entrato in contatto con le reti di assistenza del Partito d’Azione, scopre come tra le famiglie della zona abbiano trovato rifugio centinaia di altri prigionieri evasi e si adopera, così come fa in seguito anche nell’area di Monte Morello, per organizzare guide e trasporti affinché i militari, che costituiscono un serio pericolo per coloro che li ospitano, possano mettersi in cammino verso sud.

Ritracciata la zia Eillen, attiva antifascista, D’Arcy viene condotto dalla stessa presso Villa Diana a Fiesole dove un gruppo di membri del Partito d’Azione gli procura documenti falsi e pianifica il suo allontanamento verso Roma:

il 7 di Novembre ho lasciato Acone su di una autoambulanza che l’organizzazione di Firenze mi aveva messo a disposizione. C’erano con me altri sette prigionieri che volevano dirigersi verso le linee alleate. Transitammo per Rufina e Pontassieve. In prossimità di Arezzo subimmo però una imboscata nemica.

Dopo l’arresto i tedeschi caricano i prigionieri su un treno diretto in Germania. D’Arcy decide di tentare la fuga. Alla partenza del convoglio, approfittando del buio, si cala da un finestrino e, assieme ai paracadutisti Playford e Hull, che si uniscono a lui, in prossimità della stazione di Prato, quando il treno rallenta la corsa, si lascia cadere. Joseph Maddox, con cui ha fino ad allora condiviso il cammino, decide di non seguirlo.

Tornato nella zona di Monte Morello, Il Maggiore Mander scopre che il 12 novembre la zia e gli altri membri del gruppo, che aveva incontrato presso Villa Diana, sono stati arrestati e condannati a morte (La pena sarà poi commutata a trent’anni di carcere; tutti verranno rilasciati nell’estate ’44).

D’Arcy lascia definitivamente la zona il 26 novembre assieme a due nuovi compagni, i sudafricani Jack Selikman e Sandy Stewart evasi dal campo di Modena. L’ intenzione è quella di raggiungere le linee alleate, passando da Roma. Nel cammino verso sud i fuggitivi incontrano altri prigionieri che li mettono in contatto con un gruppo di partigiani comunisti di Soriano, paese nei pressi di Viterbo. Tramite questi ricevono assistenza e sono in seguito guidati a Vignanello dove riescono a prendere un treno per Roma.

Raggiungono la capitale, occupata dai tedeschi, il 9 dicembre 1943.

Arrivammo a Roma sani e salvi. Tre ufficiali alleati con un miscuglio di vestiti indosso, che non conoscevano nessuno, con appena due penny complessivi in tasca. 

Il fatto di essere privi di riferimenti e bisognosi di assistenza, spinge D’Arcy a recarsi in visita presso l’ambasciata Svizzera, dove incontra casualmente Robert Wilson, anche egli prigioniero evaso, che lo mette in contatto con Branko Bitler, membro del Movimento Comunista d’Italia “Bandiera Rossa,” attivo nel soccorso dei prigionieri e vicino all’Organizzazione Roma[1]. Attraverso la rete di Branko, D’Arcy, Jack e Sandy trovano alloggio presso un’abitazione sita in via Chelini, in zona Parioli, dove sono già ospitati numerosi militari evasi e alcuni ebrei. I religiosi del Vaticano portano loro da mangiare ogni giorno.

D’Arcy non è tuttavia convinto della sistemazione, che appare poco sicura, e chiede di essere spostato con i suoi compagni. Il trasferimento non avviene però in tempo, dal momento che, in seguito a una soffiata, il luogo è oggetto di una retata di militi della Gestapo: tutti gli occupanti vengono arrestati e deportati in Germania, eccetto D’Arcy che riesce a fuggire. Branko, separato dal resto del gruppo, è torturato in via Tasso e poi ucciso presso Forte Bravetta.

 

Avevo perso il mio rifugio, i miei compagni e il mio sostentamento quotidiano. Era ora necessario che riuscissi a cavarmela da solo. Per i successivi sei mesi ho vissuto e operato affidandomi alle persone che avevo conosciuto e ad altre con cui sono venuto in contatto. La mia vita in quel periodo è diventata estremamente complicata.

 Sapevo parlare il tedesco. Conoscevo l’esercito germanico ed ero in grado di distinguere i distintivi indossati da ufficiali e soldati tedeschi e potevo quindi identificare le diverse unità ed essere in grado di inviare informazioni agli alleati. Ho incontrato persone pronte a fornire diversi tipi di informazioni. […]

Non volevo nascondermi e rimanere isolato come facevano alcuni prigionieri di guerra, desideravo essere attivo e rendermi utile; in tal senso sono stato in grado di inviare notizie agli alleati e anche di aiutare i prigionieri meno fortunati che vivevano sulle montagne fuori Roma.

 

Uno dei falsi documenti con cui D’Arcy Mander gira per Roma. Qui con il nome di Pietro Bartoli.
(Fonte: D’A. Mander, Mande’s march on Rome)

Nei mesi a seguire, intraprendente e desideroso di darsi da fare, Mander crea la propria rete di intelligence, intercettando le conversazioni tedesche, stabilendo contatti con una rete italiana filo-alleata, dimostrandosi in grado di passare agli inglesi informazioni essenziali per anticipare le successive mosse dei nemici. Riesce, inoltre, a fornire agli alleati un elenco di tutti gli agenti nazisti a Roma.

A Roma ero conosciuto con nomi diversi. Per l’VIII armata ero un generico “Volontario”. Per il gruppo clandestino ero “Orso” e per i miei amici potevo essere Pietro Bartoli o Dario.

Con la liberazione di Roma, il 4 giugno 1944, D’Arcy spera di poter presto tornare a casa, ma riceve la richiesta di restare a trattare con gli agenti tedeschi. È di nuovo in uniforme e continua le sue attività di spionaggio.

Prima di lasciare la città, il 1° luglio, trasmette un messaggio preregistrato alla radio italiana: «Meriel sta bene». È’ il nome della figlia di tre anni, che non ha mai conosciuto perché nata dopo la sua partenza. A tutti coloro che lo hanno aiutato lungo il suo tortuoso percorso verso la libertà ha mostrato con orgoglio la sua fotografia.

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Volevo ringraziare quelle persone coraggiose che ci hanno ospitati e offerto cibo durante il nostro viaggio. Era mia intenzione comunicare loro che gli sforzi non erano stati vani nel mio caso e in molti altri, e incoraggiarli a continuare ad assistere i prigionieri ancora in libertà a Nord.

Il Maggiore Mander è stato insignito della Distinguished Service Order per la sua attività di controspionaggio. Ha continuato a servire nell’esercito fino alla pensione, impegnato in molte missioni internazionali.

 

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Campi legati a questa storia

Fonti:

Note:

[1] Si tratta dell’organizzazione finanziata da Sir D’Arcy Osborne, ministro britannico presso la Santa Sede e diretta dal maggiore Sam Derry, ufficiale inglese, a sua volta fuggito dalla prigionia. Nata sotto l’egida del Vaticano come “Organizzazione Roma” si proponeva, in seguito all’occupazione della città, di fornire assistenza ad ebrei e antifascisti, ospitati in strutture ecclesiastiche. Grazie alla volontà del sacerdote irlandese Hugh O’ Flaherty l’azione di assistenza fu presto rivolta anche i prigionieri evasi.