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James Keith Killby

(Londra, 1916-2018)
OBE-Cavaliere Ufficiale, 150ª Unità di Ambulanza da Campo – Special Air Service – Special Boat Service

Keith, obiettore di coscienza, allo scoppio della Seconda guerra mondiale prende servizio presso la 150ª Unità di Ambulanza da Campo della 50ª Divisione, con cui viene inviato in Nord Africa.

Dopo essere stato catturato in Libia, nel corso della battaglia Knightsbridge, il 10 giugno 1942, ha la possibilità di unirsi a una squadra medica tedesca addetta alla cura dei feriti in un ospedale da campo nel deserto. Tornato libero poco dopo, partecipa all’avanzata di El Alamein e successivamente si unisce allo Special Air Service (SAS) come sanitario, imparando anche a lanciarsi con il paracadute; con lo Special Boat Service raggiunge poi la Sardegna in sottomarino. A bordo dell’imbarcazione inizia a studiare l’italiano.

Una settimana dopo essere sbarcato sull’isola viene però catturato dai tedeschi e rinchiuso in una prigione civile.

Dopo la caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, è trasferito presso una base navale a nord-est dell’isola de La Maddelena, da cui, assieme ad altri trenta ex prigionieri, è imbarcato per il continente. Transitando da Pozzuoli e Roma, raggiunge in treno il PG. 59 di Servigliano.

La sera dell’8 settembre, tutto il paese, distante un solo chilometro dal campo, è in festa. Si sentono, infatti, grida di giubilo e schiamazzi; i prigionieri all’interno del campo ignorano ancora che sia stato firmato l’armistizio.

Keith Killby in uniforme.
Fonte: Monte San Martino Trust

Dopo circa tre settimane di permanenza nel campo, abbiamo sentito gli abitanti del villaggio fare molto rumore e ballare fino a tardi. Le notizie si riconcorrevano. Poi abbiamo saputo che c’era stato l’armistizio.

Il disorientamento su cosa fare è generale sia da parte italiana sia da parte alleata; circolano notizie ambigue circa presunti sbarchi alleati in tutta la penisola.

Sebbene il comandante italiano del campo, colonnello Enrico Bacci, si dimostri fermo nella decisione di non voler procedere all’evacuazione della struttura, alcuni giorni più tardi, il 14 settembre, di fronte all’imminente arrivo dei tedeschi, è l’ufficiale medico inglese Derek Millar, Commanding Officer del campo[1], a imporre la sua decisione: assumendosene l’intera responsabilità, comanda la fuga di massa. Sono proprio i soldati SAS, catturati in Sardegna e nel campo solo da poche settimane, a guidare l’evacuazione praticando un buco nel muro.

A quel punto venne diramato un ordine attraverso gli altoparlanti del campo (e posso assicurare di non aver mai udito un ordine dato così chiaramente “non sparate, lasciateli scappare” E scappammo tutti, in tutte le direzioni e da tutte le porte e i cancelli e le guardie italiane con noi”.

Fuggito dal campo Keith cammina tutta la notte assieme a un altro prigioniero inglese e a due americani. Non hanno mappe, né bussole e un dubbio li tormenta: «Che tipo di accoglienza avremmo ricevuto dagli italiani?». Lo scoprono il mattino seguente quando, mentre riposano nei pressi di contrada Barchetta, tra Monte San Martino e Penna San Giovanni, fanno presto esperienza della generosità dei contadini.

Guardai in direzione di una piccola vallata e vidi una donna [Maria Livi] di una certa età, che usciva da casa sua con una pentola sulla testa. La donna attraversò il fiume a piedi scalzi e risalì la collina dove eravamo e ci venne incontro: era la prima volta che mangiavamo la pasta italiana.

Nel giro di ventiquattro ore tutti gli ex prigionieri del gruppo vengono “adottati” dai contadini del posto dai quali ricevono cibo e riparo.

I contadini spesso non sapevano né leggere né scrivere ed erano davvero poveri, ma vivevano con una certa dignità e con un enorme senso di umanità. Forse è stata proprio la loro povertà ad averli resi generosi e coraggiosi verso altri esseri umani che non parlavano la loro lingua e che non erano cristiani nel senso religioso del termine.
Sorprendente non era solo la grande generosità, ma anche il loro grande coraggio, dato che i tedeschi avevano offerto grosse ricompense a chiunque avesse aiutato a catturare un prigioniero di guerra, e l’alternativa della morte a chiunque li avesse aiutati.

 

I quattro rimangono nella zona di San Martino per circa due settimane, si ammalano di malaria e vengono curati. Dopo essersi ripresi, Keith e i due americani decidono di tentare di raggiungere le linee a Sud, dirigendosi verso Campobasso, mentre l’altro prigioniero inglese preferisce rimanere in zona.

Viaggiano per circa cinque settimane, nascosti e nutriti dalle famiglie contadine che incontrano durante il loro percorso, evitando più volte, con fughe rocambolesche, i tedeschi.

Il 9 ottobre, durante il viaggio attraverso l’Abruzzo, si avvicinano a un piccolo villaggio chiamato Turrivalignani (Pescara), che raggiungono dal basso prima che inizi a fare buio, arrampicandosi attraverso le sterpaglie. Alla ricerca di cibo e di riparo, bussano alla porta di una casa isolata e sono accolti da un uomo anziano, Orazio Dalimonte, spaventato di fronte a tre giovani soldati dall’aspetto rude, che fa comunque entrare nella sua casa. Li fa accomodare e si scusa con loro per non avere cibo, scomparendo nella notte. I quattro rimangono seduti ad aspettare, troppo stanchi per muoversi, chiedendosi se fosse tornato con i tedeschi per reclamare una ricompensa, o con qualcosa da mangiare, gesto per cui avrebbe potuto essere fucilato. Dopo circa mezz’ora, Orazio rincasa con il cibo che gli abitanti del villaggio hanno messo da parte. Cede loro anche il suo letto.

Dopo aver attraversato la Maiella ed essere quasi giunti a destinazione, a sud di Capracotta, i tre vengono intercettati dai tedeschi nei pressi di Agnone. Sono interrogati e poi portati in una casa in cui sono già presenti tre tedeschi, con cui dividono la stanza. Durante la notte, Keith riesci a fuggire, lasciando indietro i due americani: il patto era “scappi chi può”!

Mi diressi verso la porta che era appena aperta e attraverso la quale brillava una striscia di luce. Fu necessario sollevare la porta e anche allora scricchiolò. Dall’altra parte del pianerottolo c’era un’altra stanza con la porta aperta e una luce accesa. Le scale scricchiolarono quando scivolai quasi fino a metà pianerottolo.  La portafinestra era stata chiusa, ma si apriva e c’era un balcone. Mi arrampicai attraverso la finestra, poi saltai su un altro balcone e mi lasciai cadere a terra.
Per fortuna la casa si trovava ai margini del paese e lasciai rapidamente l’abitato alle spalle scendendo a valle.  Per circa due ore ho camminato verso sud.  Prima dell’alba avevo trovato un fienile in cui nascondermi e avevo fatto un buco tra le balle di fieno per potermi sdraiare nel caso in cui avessero iniziato a cercarmi. 

Si nasconde nei boschi per tre giorni ricevendo cibo e abiti civili dai contadini del posto e riprende il cammino. Proprio quando ha bisogno di tutte le forze per attraversare la zona più pericolosa, il suo fisico, ormai allo stremo a causa della malaria che è tornata a ripresentarsi, cede. Giunto nei pressi del fiume Biferno e in grado di vedere i mezzi alleati sull’altra sponda, Keith si lascia cadere a terra stremato. Non trascorre molto tempo che alcuni tedeschi in transito lo trovano e ricatturano.

Dopo una permanenza in un campo di transito nel Lazio, e una breve detenzione nel carcere romano di Regina Coeli, torna ad essere prigioniero in Germania prima presso lo Stalag VII a Moosburg in Baviera, poi presso lo Stalag VIII-B di Lamsdorf (oggi Lambionowice) in Polonia.

Nel gennaio 1945, quando l’avanzata russa si avvicina, molti prigionieri di guerra sono fatti marciare verso ovest, Keith è invece trasportato in treno fino al confine con la Svizzera e lì finalmente rilasciato.

Keith Killby non ha mai dimenticato la solidarietà dei contadini italiani e in particolare il gesto di Maria Livi che, a piedi nudi, si era inerpicata su per la collina per portare loro da mangiare.

Nel dopoguerra ha mantenuto la promessa di tornare a salutare quanti lo avevano aiutato, facendo loro visita nel 1960 e in tante altre occasioni.

Pacifista e fautore di un Europa federale, nel 1989 ha fondato il Monte San Martino Trust, dal nome del piccolo centro in cui era stato accolto subito dopo la fuga dal campo e dell’omonimo Santo che, leggenda vuole, aveva diviso il suo mantello con un povero: un gesto che richiamava le tante manifestazioni di generosità che i contadini avevano avuto per lui e i suoi compagni e che sentiva di dover in qualche modo ricambiare.

Campi legati a questa storia

Fonti
  • Keith Killby, In Combat, Unarmed: The Memoir of a World War II Soldier and Prisoner of War, Padstow, TJInternational, 2013
  • Keith Killby, resoconto (febbraio 1991), Monte San Martino Trust Archive: <https://archives.msmtrust.org.uk/pow-index-2/killby-keith/>
  • Giuseppe Millozzi, Prigionieri alleati: cattura, detenzione e fuga nelle Marche 1941-1944, Fondazione Ranieri di Sorbello, Perugia, 2007.
  • https://camp59survivors.com/2013/07/21/j-keith-killbys-memoir-in-print

 


Note:

[1] Dopo la guerra il capitano medico Derek Miller fu decorato come Member of British Empire (MBE) per aver disubbidito allo Stay Put Order e reso possibile la fuga in massa dei prigionieri dal campo di Servigliano.